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Le stragi del sabato sera

Alcune note operative e di ordine psicologico

Gettare altro allarme su questo tema credo serva a poco oggi, nel momento in cui giornali, televisioni, media in genere, ma anche il mondo politico già ne hanno gettato tanto, provando a ricercare cause, effetti, discrasie.

Secondo i dati ISTAT, le morti per incidenti stradali costituiscono una delle principali cause di decesso dei giovani tra i 15 e i 24 anni , ovvero oltre il 30%, con una significativa concentrazione nelle ore notturne, e spesso nelle prime ore del mattino.

L’Italia, a livello europeo, detiene il macabro “primato”, insieme alla Spagna.

Solo nel 2005, dalle 22 alle sei di mattina, si sono verificati 35.098 incidenti stradali (pari al 15, 6% del totale) con decessi di 1529 persone e ferimento di altri 54.873. Tra il venerdì e il sabato, emerge il 45% dei decessi settimanali.

Generalmente, volendo riassumere quanto apparso sui media, tra le cause, vengono indicate l’eccesso di velocità e lo sbandamento, l’assunzione di alcool, il consumo di stupefacenti, la stanchezza fisica, lo stato di ipereccitazione.

Si è anche ribadito che la complessità della questione necessita di risposte integrate in un progetto di ampia portata che tenga conto dell’”universo delle problematiche giovanili”.

Intanto, un prima osservazione è proprio sul fatto che muoiono i giovani, entro i trent’anni, e i feriti, non si contano, per cui l’effetto emotivo si moltiplica, l’impatto è forte, l’opinione pubblica è sotto “choc”.

E’ anche chiaro che la problematica è complessa, sembra quasi una tautologia, per cui, in questa sede, a me è parso interessante approfondire il tema eminentemente dal punto dei vista dei giovani e chiaramente, da quello del poliziotto che, sempre a mio avviso, è e rimane un “uomo/donna” dietro la divisa, al di là di quanto finora ritenuto, ovvero che debba essere, comunque e sempre, una sorta di “superman”.

E’ molto interessante osservare il punto di vista dei giovani, dall’interno: quel che emerge, dai loro temi a scuola o anche da alcune interviste che mi sono preoccupata di effettuare personalmente, sembra la chiara espressione di un disagio, in una società come quella attuale, in cui l’importante è apparire, non essere. Mi spiego, nelle discoteche, di norma, si beve per “mettersi in mostra”, per “farsi coraggio con le ragazze”, per “sfogarsi” rispetto ai trascorsi settimanali o perché si è arrabbiati rispetto ad eventuali rifiuti ricevuti, quando ancora ti dicono, in modo vago e molto poco concreto “non lo so”. Comunque occorre sentirsi all’altezza e, se per caso, uno non ce la fa, il ricorso al bere sembra automatico.

Loro stessi dicono che “hanno voglia di confrontarsi fra di loro e di superarsi a vicenda”, mostrando un grado di competitività non indifferente tipico dei nostri tempi, “ per mostrare al gruppo il proprio coraggio” e, specialmente, “per non farsi emarginare”. Occorre quindi evidenziarsi, in qualsiasi modo.

Loro, ancora, dicono che non è vero che esiste un fenomeno di “sballo” del tipo indicato dai medici come “la droga senza droga”, ossia la musica ad alto volume con luce diffusa che inciderebbe fortemente sui meccanismi cerebrali dell’attenzione. Perché, al massimo, nelle discoteche, prima di risalire in auto, hanno tutto il tempo di riprendersi, se non bevono o “non sono fatti”.

Ora, sappiamo che, oggi, l’adolescenza non è più quella di qualche anno fa, ha subito una sorta di “allungamento” temporale, l’aspirazione all’indipendenza non è più così generalizzata, il lavoro certamente incide, perché manca, ma talora, la ricerca di un lavoro non viene neanche più visto come l’aspirazione principale. D’altronde, è sempre più facile procurarsi dosi di droga, a prezzi contenuti (pensiamo all’extasy, prima fra tutte!), è facile trovare chi spaccia, per cui, oggi, devi avere una personalità di base forte e controllata per non incorrere in tranelli fatali.

L’adolescenza è un punto di arrivo, una fase di vita, sempre più dilatata nel tempo, con una coscienza che emerge e un imperativo imprescindibile: distinguere sé stessi e gli altri nel proprio modo di dare senso alle cose. Termini scientifici, a proposito, ci dicono che assistiamo a una “ri-configurazione” (deflagrante!) del modo in cui si vive. Nella “prassi” del vivere, come si dilettano a dire gli autori, del pensiero e dell’azione, si cambia e si devono fare i dovuti conti con una realtà di sé e degli altri diversa.

A questo punto, il ragazzo acquisisce la capacità, ulteriore, di riflettere, e riflette su di sè. Egli organizza eventi e senso di sé secondo una serie di valori astratti che integrano ciò che accade, ha una visione diversa quel tanto che, generalmente, gli permette una gestione più o meno “efficiente” di quel che accade all’esterno (Arciero, 2002, Guidano, 1998 et altri).

Si sviluppa un immaginario. Per la prima volta, in senso biologicamente determinato, egli si sente autore della propria vita, indipendentemente da ciò che accade intorno (Guidano, 1997), e in ciò traspare un senso di solitudine profonda, che c’è sempre, anche se non si vede. Ci si sente esistere con sé, egli è ripiegato su sé,e in quanto tale è un “esistente solo” (Levinas, 1947).

La tanto declamata indipendenza o autonomia, più o meno ricercata, poggia tutta sull’autoriflessione che oggi il ragazzo ha. Per questo egli rivede le figure genitoriali, ri-negozia il rapporto, espande i suoi domini di esperienza.

Quando insorgono problemi, non insorgono certo a caso, e sono solo apparentemente sconosciuti o improvvisi, ad oggi. Se, come si fa in psicoterapia, si ri-costruisce un po’ la vita degli anni precedenti, si vede infatti come quei problemi, di conflittualità accesa per la libertà, temi di rifiuto, o di oppositività o altro, hanno avuto i loro prodromi da prima.

Già nelle fasi antecedenti c’erano segnali di quanto sarebbe poi avvenuto: ora assumono una risonanza e un’eclatanza. Non solo, spesso questi temi più significativi o problematici superano l’arco generazionale e tendono a riprodursi nel corso delle generazioni.

Il punto di vista del poliziotto è, a dir poco, sconfortante: “ viviamo ogni fine settimana con l’angoscia di chi deve leggere il bollettino periodico di una guerra sul punto di essere ormai persa. Giovani che muoiono a decine, a centinaia, nell’anno, intere famiglie spazzate via, polemiche sulle strategie da adottare..”, ai genitori non è facile spiegare perché si è ritirata la patente, visto che appaiono del tutto inconsapevoli su quel che il figlio fa, ed è ancora più tragico il momento in cui arrivano per attendere dietro alle porte a vetri delle sale di terapia intensiva o, peggio, per riconoscere i figli in obitorio (ASAPS, Associazione Sostenitori Amici Polizia Stradale, 2007).

Genitori e ragazzi, un tema sentito, che ha un suo fascino, e anche, si sa, evidenti difficoltà. Ripeto spesso a chi mi chiede lumi e consigli: “ sì è vero, il “mestiere” di genitori è il mestiere più difficile che si possa immaginare, e con cui ci si “imbatte”, nel senso proprio che “impatta”, perché denso di significati, e di affettività, con espressioni e manifestazioni diverse e complesse.

Nel contesto familiare, inevitabilmente sorgono interrogativi: genitori da un lato, con il loro mondo e la loro vita di adulti, e bambini, poi fanciulli o ragazzi, che non condividono un’adultità conclamata, cui pure si affacciano, ma hanno un altro modo di essere, di agire, di pensare, di affermarsi, in un mondo che è realmente tutt’altro rispetto a quello adulto.

Quanta pazienza e quanta sensibilità di ascolto, richiede la sua gestione, con i ritmi di vita e i condizionamenti, le aspirazioni che abbiamo, con i nostri problemi, e dobbiamo pure avere a che fare con una scarsità di informazione o una distorta informazione che complica ulteriormente le cose.

Il primo difficile compito è, appunto, comprendere come entrare in rapporto.

Non posso essere quel che “sono stato e non sono, ormai ”, certo, ma ho l’obbligo di esser consapevole che loro, i figli, sono “altro” da me, e che la responsabilità e il fardello di compiti si attenuano sempre e solo nella consapevolezza. L’essere coscienti, il sapere che posso ugualmente entrare in questo mondo, pur non condividendo, pur mantenendo me nella mia integrità e facendo leva sulla maturità acquisita.

Non è cosa semplice, certo, ma sicuramente è possibile.

Quanto sia difficile anche solo comunicare ai familiari delle vittime che un figlio o un parente prossimo è morto o ferito, la Polizia lo sa da tempo, tant’è che si sono costituiti dei corsi appositi di comunicazione in tal senso.

La Polizia sa anche che è estremamente utile ricorrere alla Psicologia dell’Emergenza che, come peraltro sottolinea, in modo chiaro ed esauriente, il dott. Spinello, della stradale, notoriamente mira a preservare e ripristinare l’equilibrio psichico della vittima, dei parenti e dei soccorritori, in seguito all’effetto di eventi catastrofici e traumatici, laddove il poliziotto che soccorre è ritenuto, a buon diritto, “vittima di terzo livello”.

In altri termini, chi è preposto al soccorso in Polizia subisce tutta una serie di danni psico-fisici, soggettivamente determinabili, ma con alcuni trands comuni, che passano dall’ansia di attesa al momento in cui si arriva sul luogo dell’incidente dove, necessariamente, deve contenere le emozioni. Quando poi ritardano i soccorsi deve anche placare le ire dei presenti…”L’emozione più forte è senz’altro legata alla visione del cadavere…in particolar modo se si tratta di bambini o adolescenti”.(A. Spinello, “La Psicologia dell’Emergenza” a supporto degli operatori della Polzia Stradale, 2007)

Senza considerare poi che, a mio avviso, c’è sempre il rischio che egli si possa identificare e pensare “potrebbe essere mio figlio! O il mio amico o quel mio parente prossimo!”

Come non parlare, a questo punto, di stress e di difficoltà del poliziotto “ a tutto tondo”, il quale, poi, giustamente, lamenta anche insufficienza di organici per una efficace opera di prevenzione.

Opera di prevenzione, estremamente difficile sulla strada sotto il profilo psicologico: c’è la tensione del poliziotto che sopporta le proteste del cittadino perché meno drammatiche dell’incidente in sé, c’è l’impassibilità, altamente professionale, di fronte all’arroganza di chi, magari uomo adulto, grida contro il poliziotto che “dovrebbe occuparsi di cose serie”, non di un tasso alcolico elevato dopo una cena, c’è l’ubriaco extracomunitario che inveisce con l’accusa di razzismo, solo per citare pochi recentissimi esempi apparsi sulla stampa nazionale (cfr, in particolare “La Stampa”, art del 12 marzo scorso e l’ASAPS, 2007)

Quel che ho estremamente chiaro, da anni a questa parte, ormai, è che il poliziotto (mi si consenta, non solo quello della stradale) vada sostenuto psicologicamente; va bene, sicuramente, sostenerlo dopo, con tutte le varie iniziative intraprese (programma dei “pari”, DVI, interventi sul disturbo post traumatico da stress, etc..) ma è altrettanto decisivo, e direi prioritario, sostenerlo prima, oltre i programmi di selezione e formazione in materia di psicologia, che pure appaiono imprescindibili. Ancor più importante è il sostegno sul posto di lavoro, in Questura e nei Reparti Operativi dove dovrebbe ospitarsi una figura stabile di professionista psicologo che, al pari di quanto avviene a livello internazionale (a partire dai Paesi anglosassoni), agisca a supporto e non come selettore.

Attraverso un preciso cambio di mentalità, che oggi si reclama un po’ dappertutto negli stessi Reparti della Polizia di Stato, e anche con la chiusura di taluni Istituti di Istruzione, si spera che questo possa avvenire. Sarebbe comunque un errore a mio avviso procedere su questa strada senza una progettualità a trecento sessanta gradi, che contempli chiaramente e legalmente questa possibilità, di agire a supporto sul posto di lavoro, mentre si lavora, ma questa è un’altra storia….

Dicevo all’inizio che gettare altro allarme serve e poco, e lo ribadisco, quel che è importante è agire!

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